Racconti
5 maggio 2008
Occhi d’un nero intenso
Occhi d’un nero intenso...
Erano quelli dell’attrice, non
ricordo il nome, non quelli dolci da Tempo delle mele, piuttosto quelli
grintosi di Flashdance, quelli da pantera, da ce la farò. Sophie
Marceau, la prima cotta cinematografica. No, piuttosto Jennifer Beals,
con lo sguardo aggressivo e i riccioli in disordine. La vita stretta da
ballerina mancata e un’energia speciale dentro. Flashdance l’ho
visto quattro volte, in quel cinema che prima era un teatro, lo stesso
dove ho visto il primo film da adulto, senza genitori, I Barbapapà, mi
pare. Per il cinema ho sempre avuto passione, ancora non capisco
perché mia zia Lina se la prendesse tanto per il fatto che c’era un
teatro in meno. - Mbe’?… adesso c’è un cinema in più - le rispondevo. E lei s’incazzava. Ma alla fine la rispettavo, anche quando diceva che il teatro è d’un altro livello, con l’alterigia di chi sa di capirne di più. - Ti mancano le basi, che vuoi farci?… colpa di tua madre. - Da bambino, in effetti, sono state rare le occasioni in cui frequentare un teatro. Quelle
poche volte andavo con zia Lina, che era abbonata e s’intestardiva con
mia madre perché a suo parere se le persone andassero a teatro fin da
piccole il mondo funzionerebbe meglio. Per la verità, a mia madre
andava pure bene che mi togliessi di torno per tre ore, che così poteva
dare lo straccio per terra e magari la cera. Ma quello che non andava
giù a zia Lina era che potessi seguirla solo per scomparire un
pomeriggio intero da casa. - Sì, per favore, portatelo in giro così mi faccio il corridoio - - Guarda che me lo porto a teatro - rispondeva zia Lina, sottolineando la necessità dell’evento. - Meglio! Posso fare magari salotto, cucina e camera da letto! - Così, a forza di cera sui pavimenti mi sono fatto una cultura. Dello
spettacolo poi non è che me n’importasse, a otto anni: seguivo male la
storia, non capivo i dialoghi, non m’appassionavo ai personaggi. L’unica
cosa che mi piaceva era l’inizio; mi cullavo nel brusio di sottofondo
prodotto alle mie spalle (zia Lina aveva la prima fila) e mi divertiva
aspettare il suono della prima campanella, quando ogni rumore sarebbe
cessato di colpo per poi riprendere in crescendo. Alla seconda
campanella mi voltavo. La cosa che m’affascinava di più era osservare
come tutti gli spettatori fossero ancora distanti dai posti assegnati
con una logica quasi matematica. Il signore sudaticcio in giacca e
cravatta dietro di me doveva raggiungere nientemeno che i palchi, e
diceva all’amico con la pipa di non preoccuparsi, che ancora c’è tempo.
Poi lanciava benedizioni papali a una decina di persone ad ogni angolo
della sala, come a dire “tra un po’ ci vediamo su”. Alla terza
campana si scatenavano gli avvoltoi della poltrona libera, quelli che
avevano il posto in galleria e pregavano perché il commendatore Arena
non venisse. “Quella è la sua poltrona, di solito è puntuale, vuoi
vedere che non ha trovato parcheggio?” Zia Lina m’insegnava a
riconoscerli già dalla prima campana: - Guardali; tutti fermi ai lati
della sala, aria circospetta, viso paonazzo. - Ci azzeccava sempre. La
cosa che mi meravigliava era vedere come, con tutto quel casino di
posti da conquistare, file intere occupate da una persona sola (“Guardi
che chiamo la maschera. Questa è storia d’ogni volta!”), gente che
andava, veniva, salutava, rideva, vociava, rimproverava, correva,
quattro minuti dopo il suono della terza campana tutto questo era
miracolosamente un ricordo. C’ero rimasto io, con quel tendone rosso
porpora davanti, con quelle due parti austere e magiche che al via di
non so quale forza misteriosa si sarebbero aperte per catapultarmi in
una storia non mia, tutta nuova, bella o brutta non importava in quel
momento, perché quello era il momento in cui io, solo io, stavo
entrando nella favola segreta: era il momento in cui s’apriva il
sipario. 
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inequivoca autorizzazione da parte dell'autore.
12 marzo 2008
Dal fronte

Oggi c’è un sole che invita. Abbiamo deciso di fare una gita, io e Vicè, come ai vecchi tempi. Solo
che ci siamo subito ricordati, io e Vicè, di non avere mai fatto gite,
o forse appena una buona in trent’anni. E per quanto oggi avessimo
stabilito di spingerci lontano, siamo arrivati solo a Porticello, che è
a mezz’ora da Palermo. Rieccoci coi nostri limiti: quelli del nord, i continentali, sono più abituati alle distanze, non c’è niente da fare. Però Porticello posto di mare è, e il sole oggi ne incornicia ogni angolo. Tutto sommato va bene qui. Gli devo fare leggere una montagna di roba e un altro tanto gliene devo raccontare; io e Vicè non ci vediamo da due mesi. Lui
metterà in scena uno spettacolo al teatro Garibaldi (quello resuscitato
dalle bombe e dai furti alla Magione) e ha bisogno di una rete da
lampara per allestire la scenografia. Ma come viene viene, scendiamo
dalla macchina e ci troviamo davanti il villaggio dei pescatori, e i
pescherecci, e il sole che luccica sul mare e questa massa immobile e
sempre in movimento, che alla fine mi viene un’illuminazione: Vicè,
fottiamocene di tutto, arte e teatro, e andiamo in trattoria a farci
una mangiata di pesce. Ci accomodiamo da ZA MARIA, CA CU S’ASSITTA
S’ARRICRIA e ordiniamo un frittomisto calamari e gamberi annaffiato da
un bianco d’Alcamo. Poi ci lasciamo tentare da un’insalata di mare
(taliasse ‘stu purpu, have l’occhi azzurri) e dalle seppioline affogate. E
davanti a me, al tavolo di fronte, c’è un tizio che mangia ch’è un
piacere, solo, Rajban scuri, intorno portate d’ogni tipo e natura. E
mentre mangia, si dimentica del mondo. Vicè! Potrebbe essere lui, Salvo Montalbano di Vigàta, in trattoria. Solo chi ha letto e sa, potrebbe capirmi. E Vicè non ha letto e non sa, non mi capisce, anche se ci tenta. Il
conto però: di quello Camilleri non ha mai scritto. Sessantacinquemila
lire, e tanto meglio non pensarci più. Anche perché è ora di darci da
fare. Dopo la sigaretta digestiva, Vicè si avvicina a un uomo su una
lapa. Vicè chiede all’uomo sulla lapa se lui per caso, essendo che è
pescatore, non è conto che abbia con sé un pezzo di lampara o di
tramaglio da darci, previo pagamento. Non ci comprende, e poi lui il
pesce lo vende soltanto. Gli dico: Vicè, più deciso devi essere, sei un direttore artistico, un impresario! Individuiamo
un gruppo di uomini vestiti alla pescatora, che rammendano le reti.
Vicè parte con passo rapido e sicuro e gli si para davanti. A parte
il fatto che questi sembrano incazzati già così. Ma poi te li vedi
tirare le fila di questa massa di rete di cui non s’intuisce né
l’inizio né la fine, e invece loro ne indovinano ogni buco pirtuso, e
sembra che, se li distrai anche solo per un attimo, poi non ci si
raccapezzeranno più. Picciotti. Che si dice? Mi sirbisse n’anticchia di ‘sta rete… e io penso: Vicè, non così, così è troppo! …Pi ‘na cosa di tiatru. Uno
di loro, il più scuro, a quella parola si scioglie come un ascaretto al
sole. Teatro! Guarda il mio amico dalla sigaretta ad angolo bocca, poi
mira a due ragazzini lì accanto e dispone, secco: Carusi, ‘iti a
grapiri ‘u magasènu. Alla fine, in macchina con noi ci sale magari
lui a grapiri ‘u magasènu, e tra me e me penso che con questi due
teatranti è un modo come un altro per arrotondare la giornata. Tempo
fa, dovendo descrivere il protagonista del mio nuovo racconto,
scrivevo: “sguardo mobile, viso corrotto dal sole”, e mi chiedevo poi
se corrotto non fosse una parola troppo forte per indicare uno che col
sole ci sta a tu per tu. Non lo è. Se adesso dovessi descrivere
l’uomo seduto dietro di noi, direi: viso corrotto dal sole. Ma a
proposito dello sguardo? Il suo è cupo, non ci si entra. Vicè, preso
com’è dalla sua parte d’impresario del Teatro Garibardi di Palermo,
promette biglietti gratis a tutti (Vicè, ma lo spettacolo non è
gratuito a prescindere?). Io, per attaccare discorso, provo a buttare
lì una domanda, gli chiedo se non occorre una santa pazienza a
trafficare con quelle reti. Il suo sguardo stracancia, un attimo è
fierezza, l’attimo dopo si fa cielo terso. Non so fermare in un’unica
immagine questi due occhi di bestia sirbaggia, un po’ film neorealista
e un po’ cartone animato. Arrivati al magazzino, l’uomo afferra una
massa di rete e ci fa segno di caricarcela. Io e Vicè ci guardiamo come
a chiederci: ma quanto ci viene a costare? e l’impresario fa capire
all’uomo che non è che poi dobbiamo addobbare l’intero teatro. Ce ne
basta un metro o due. Questa è rete di lampara, non s’infradicia, ci
spiega l’uomo dopo averla caricata in macchina e, quando Vicè gli
chiede, con voce cantilenante forte e decisa: Allora, quant’è per il
disturbo? lui mette su la maschera del siciliano offeso e amareggiato
perché non ti sei accorto che di regalo si trattava. Poi m’offre un
cafè, risponde. Al ritorno gli chiedo di parlarmi del suo lavoro. Lei
nel mare non ci può entrare. Non ci capisce nenti. E come dargli torto:
cosa sua è, cosa sua rimane. Io del mare in fondo non so nulla, io
cittadino col mare a telecomando. Il caffè, alla fine, quasi
dobbiamo pregarlo per offrirglielo. Vicè, impresario dal cuore tenero,
ripete al gruppo: E allora, vi aspetto tutti, per voi è gratis!
(aridaglie Vicè) e poi li salutiamo. Uno, distratto, chiede
all’altro accanto: Ma zocc’hannu a fari cu ‘sta rete?, e l’altro lo
sento rispondere: U tiatru, con un’inconfondibile punta d’orgoglio che
per me significa “e noi li abbiamo aiutati”. Ma che ne sanno loro dell’arte, loro che solo mare vedono? Ne sanno, ne sanno. E noi? Muti come due pesci, da Porticello fino a Palermo. Come
sempre dovrò rinviare i miei due mesi di novità. Io e Vicè, alla fine,
non ci siamo detti niente, e ora gli dovrò pure raccontare di quella
volta, quei pescatori.
25 febbraio 2008
Corrispondenze
Gentile signor T,
Stamani si è stabilito tra noi un accordo di
reciproco piacere fondato su uno scambio di epistole. Benché Lei abbia
mostrato una non piena convinzione per la suddetta sperimentazione, io
La invito a rifletterci su. Credo che un periodo di solitudine sia
necessario per capire che cosa si prova. Ho trascorso un imprecisato
numero di giorni, tra il dicembre 2001 e il marzo 2002, da sola
nonostante un certo numero di presenze maschili qualitativamente
significative (gli amici francesi, Lele, Edoardo, Cristiano) e diverse
relazioni amicali molto importanti. Ho ripreso i colloqui dallo
psicologo e da sola ho concluso il tirocinio, mi sono preparata
all’abilitazione, alle partenze, al lavoro con l’associazione, alla
depressione settembre/dicembre, ai percorsi in treno paese-città, ai
sogni su Lele, eccetera. Da sola e in compagnia di quanti ho già
citato, ho costruito la dottoressa L, quella donna che Lei doveva
incontrare a marzo, Lei, signor T. Una donna che dimostra più della sua età, che sembra sicura di sé e delle proprie mosse, perché non guarda in faccia le persone. Non
avevo mai sentito/pensato che qualcuno potesse avere bisogno di
sentirsi amato da me, che si potesse sentire ferito dalla mia presunta
indifferenza, intimorito dalla mia persona. Queste cose le ho comprese
col tempo e, compiutamente, solo in questi ultimi anni. E Lei,
signor T? Lei che è invece profondamente capace di fare sentire una
donna amata, si rende conto del potere che ha? Soprattutto se non si
sente emotivamente toccato. Lei voleva sentirsi amato dalla
dottoressa L? Voleva sentirsi PIÙ amato? Voleva insediarsi totalmente
nella sua “no man’s land”? La dottoressa L non ha capito che cosa fosse
quella richiesta di appagamento insaziabile, forse ha temuto di
sentirsene divorata. Perché ha voluto un appuntamento? Perché e come pensava che il suo DISTACCO EMOTIVO potesse mutare? E se qualcosa fosse realmente cambiato. Avrebbe temuto di rimanerne distrutto? Ha mai riflettuto piuttosto sul rischio di poter distruggere? Lei,
signor T, afferma di aver sempre amato le persone che ha incontrato (e
lasciato, aggiungo). Ma come si rinuncia a qualcuno che ha delle
qualità o caratteristiche che amiamo? Come si accetta che
quell’individuo che ci ha fatto ballare, ridere, piangere, godere,
morire, possa poi non amarci più? Come si può, a freddo, incontrare di
nuovo quegli occhi brillanti, che ci fecero sentire così speciali, e
lasciarci poi sezionare da uno sguardo ormai indifferente e appassito?
No signor T, non credo che Lei si sottoporrebbe mai a un simile
supplizio. “Avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho
pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato
fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo…” Tutta
intera, la dottoressa L era troppo o mai abbastanza. Che cosa non
andava bene, cos’altro avrebbe voluto? Forse quello che io non ero, non
sono, non provo, non mostro. Il mio saluto, il tuo voltarti
indietro. Ma tu, signor T, li dietro non hai trovato niente, e non è
colpa di nessuno. Quale soluzione adesso? Che cosa c’è più, per noi due? Ma eravamo proprio io e te a passeggiare la sera, io e te abbracciati, eri tu che volevi me? Arrivederci, signor T. Tua E.L.
MT
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21 febbraio 2008
Un fiore di dalia - (favola)
Un seme di dalia aveva cominciato a germogliare sul campo di un contadino.
Era
un terreno interamente coltivato a grano, e il contadino di quel grano
aveva sempre vissuto. Ma la pianta pian piano cresceva ed in cuor suo
il contadino ne era felice, osservava ogni giorno lo stelo diventare
lungo e rigido, dapprima con curiosità, poi con sempre maggiore
affezione.
Era una pianta verde in una totalità di giallo,
invisibile ai più, ma non al contadino. Non notava il grano biondo
intorno, vedeva solo quanto grande, bello e rosso fosse diventato il
suo fiore di dalia.
La stagione della mietitura era vicina,
finalmente avrebbe ricavato il suo utile, ma avrebbe dovuto mietere
anche la dalia, il mietitrebbia non l’avrebbe distinta, gli sarebbe
stato impossibile salvarla.
Il contadino ci pensava ogni ora del
giorno tanto che, alla sera, si sentì stanco e non fu più contento. In
cuor suo la dalia lo aveva reso felice, ma adesso la vedeva solo come
una macchia di rosso che sporcava il suo campo d’oro. Allora prese la
vanga e estirpò la dalia con la sua radice.
Ci mise perizia, fece un buon lavoro, il campo riprese il proprio colore uniforme.
Posò
la vanga sul terreno, guardò la dalia senza più luce né nutrimento, e
si disse che avrebbe potuto metterla in un vaso, ma l’avrebbe vista
appassire, che avrebbe potuto lasciarla lì e dimenticarla, ma prima o
dopo da lì sarebbe dovuto passare.
Non seppe cosa fare.
Decise
infine di gettarla tra gli scarti. La prese in mano, ma così, ancora
bella, sembrava viva. Non riusciva ad avviarsi, la guardò un’altra
volta, poi si disse: mio Dio cosa ho fatto!
MT 2007
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favola
un fiore di dalia
| inviato da ioTocco il 21/2/2008 alle 0:2 | |
15 febbraio 2008
Notte in bianco
Alle sette e dieci ti ho osservata ancora una volta e ho capito che era tutto giusto. Tutto giusto così. La
città s’è svegliata con me, sta ancora sbadigliando gravida di sopore,
amaro in bocca. E’ diversa la città da un piano attico, è adulta,
emancipata. Ti ho preparato il caffè, uno di zucchero, e sono
rimasto qualche minuto con la tazzina in mano, qualche attimo di sonno
in più per te. Ma la prima luce t’avrà già scoperta, come ha
scoperto me che annaspo tra le ultime ore a disposizione; non c’è più
niente che possa fare. Era stato alle tre e un quarto: ti avevo
fatto ancora una domanda che già dormivi, il tuo corpo era lì per me,
luce accesa e timide carezze che ti cullavano i sogni, ma io non lo
sapevo. Volevo guardarti, solo guardarti. Alle tre e ventuno ti
ho spogliata. Pensavo non ne avessi voglia, o volessi concederti poco a
poco, farmi cuocere lento, giocare col mio pudore, sputtanare quella
paura che ho chiamato discrezione. Io invece dovevo guardarti, solo
guardarti. Non è bello il tuo corpo, no. E’ il punto di
confluenza di desideri e debolezze, un crogiolo di passioni e
titubanza, è candore, il tuo, quando le gambe serrate non cedevano allo
scorrere delle dita, è virilità, potenza piena, quando solo due sere
prima ti eri data del tutto al mio sguardo, ed io non lo sapevo, non
ero pronto. Cazzo!… non ero pronto a riceverti così. E la cosa che
volevo con tutto me stesso era star lì a spiarti, ad impararti a
memoria per tutto il tempo, se mai tempo ce ne fosse stato, e la prima
cosa che ti ho chiesto era di spegnere la luce per confonderti, perché
per me sei troppo, per me sei troppo ed io non sono bravo! Devo
dimenarmi, prenderti a tratti, perché potresti travolgermi con quel
tutto fatto di desideri e debolezze, di piombo e zucchero filato, fatto
di troppe cose che dovrei esplorarti di continuo per coglierti intera! E intera non ti si può cogliere. Devo trattenere il fiato. Così,
alle quattro e dodici ho spento la luce. Avevi bisogno di riposare,
domani si lavora, ed ho provato a riposarti accanto, in silenzio. Ti sei girata, mi hai abbracciato. Alle
quattro e tredici il tuo odore mi ha invaso ogni spazio, occluso ogni
poro. Un odore acre, di pelle appesantita dal sonno. Un odore… troppo. Non
facevo che voltarmi di continuo, gli occhi sgranati e mille pensieri
appiccicati addosso, mille gocce di pioggia sottile, poi grandine secca
a sommergermi, poi neve ad isolarmi, imprigionarmi di pensieri. E pensieri… e pensieri. Ho dovuto trattenere il fiato. Alle quattro e quaranta mi sono alzato. Quel letto, da solo, sarebbe stato più capace di me. Ho
acceso una sigaretta, l’ho spenta, mi sono rannicchiato sul divano ad
aspettare il giorno ed ho ringraziato Dio perché ti avrei preparato il
caffè, uno di zucchero. No, forse non sei di più, è solo bellezza a coprirti stanotte. Ma tra poco la luce ti scoprirà, non posso oppormi. Non posso farci niente. Finalmente
mi sento protetto. In fondo è bastato starti lontano appena un po’,
appena appena. Ma qui tutto parla di te… le maschere di cuoio appese
alle pareti, gli scarabocchi nei fogli sul tavolo, la foto di tua madre
a cavallo. Qui tutto grida! …di te. Bella donna tua madre, non sembra vecchia. Penso
alla mia, alla madre di Nino: sono l’essenza della madre, sono madri
essenziali, anziane, usate, basse e materne, madri insomma. Ma tu, neanche una madre normale ti sei permessa? Se tra queste carte ci fosse un indizio… qualcosa ancora. Alle
sei e un quarto la città comincia a svegliarsi e mi sveglio anch’io, di
colpo. Forse ho dormito. Devo aver dormito, perché erano le cinque e
venticinque… Ti sei accorta che non ci sono, che non ti sto più
accanto? E queste maschere che mi ridono sopra, e questa poltroncina
Art Nouveau che non mi sa contenere. Le sei e cinquanta: i miei sensi riprendono a funzionare. E’ un miracolo del cielo che ci si risvegli e tutto è come prima. Vorrei entrare, la luce avrà fatto il suo dovere, magari ti trovo sveglia. Sfoglio un libro, frugo tra le carte sul tavolo, un indizio, mi basterebbe trovare qualcosa, un particolare soltanto. Il sole ridisegna i contorni delle case, sento il bar che apre, il movimento degli spazzini, il mare. La macchinetta del caffè. E’
ancora presto, ma lo farò adesso. Magari ti sveglio con la scusa del
caffè pronto. Poi, proverò anche a poggiare le labbra sulle tue, chissà
che sapore ha il sonno. Il caffè è uscito, sono le sette meno dieci
ormai. Lo verso nelle tazze, ho fatto casino porcaeva! se ti svegli
prima del mio bacio m’impicco. La tazzina gialla è più piena, ma il
caffè della verde è meno acquadipolpo. Evatroia!… l’ho versato per
terra, che idiota! se mi vedesse Nino, con quella fissazione della mano
che mi trema. Bevo il mio, tazza gialla, così ne porto uno solo.
Azione! Azione azione!! giuro che ti sveglio, giuro che ti salto
addosso, giuro che ho voglia di fare l’amore con te, giuro che a lavoro
oggi non ci vai, giuro che Alle sette eri bellissima ed io lì davanti con la tazzina in mano, uno di zucchero. Forse dovrò trattenere un po’ il fiato, appena appena. Alle sette e sette ho poggiato la tazzina ai piedi del letto, il tuo caffè è appena tiepido ormai, mi dispiace. Tu dormi ancora, ma è già ora, lo so. Alle sette e dieci ti ho guardata per l’ultima volta ed ho capito che è tutto giusto. Tutto giusto così.
MT
Nota
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inequivoca autorizzazione da parte dell'autore.
notte in bianco
| inviato da ioTocco il 15/2/2008 alle 7:32 | |
24 gennaio 2008
Opzione
Attendere … (Nuovo 1/1) CAMEL 07/03/2001 09:05 Visualizza. Sto a lezione di Penale con la batteria del cell scarica - devo dirti una cosa import. io e Nic ci separiamo, deciso - Camilla. Di
Camilla ho una lettera, 1990 o giù di lì. La tengo in un cassetto,
sgualcita, nove o dieci righe, ha sempre scritto poco. Poi, credo, una
cartolina da Istanbul, viaggio di nozze, estate ’91. Mi diverto un
mondo, ogni tanto ti penso. Baci. Opzione. Cancella Rispondi Chiamata vocale Selez. Rispondi. Cam, sono in autosole, verso BO. Cambio direzione e torno a RM - 1 ora circa vengo a prenderti - se vuoi. Tanto
non vuole, non ha mai voluto. E non capisco perché l’acceleratore debba
rilasciarsi sotto al piede. Di Camilla ho una lettera sgualcita, Dio sa
quante volte l’ho letta, e toccata, ho tenuto il foglio tra le dita per
sentirla amica. Per sentirla solo amica. Attendere … (Nuovo 1/2) CAMEL 07/03/2001 09:09 Visualizza. Il mio cell. è quasi out - ovvio non venire. Ciao - Camilla. Rallento
ancora, cazzo, ma perché? E se mentre rallento sbatto contro un SMS,
non mi faccio niente, è solo memoria volante. Mi fermo in autogrill,
alla Flaminia. Depurarsi, fare pipì, scaricare tossine sul fondo di una
tazza di un cesso qualsiasi in una qualunque parte del mondo. Tirare
l’acqua e non averci più niente a che fare, le mie tossine in una fogna
qualsiasi verso un qualunque fiume a finire dentro al mare e diventare
parte del mondo, evaporare, poi piovere, disperdersi nell’universo.
Dimenticare. Caffè. Tossine nuove, fresche di giornata. Mi sgranchisco un po’ e guardo i CD al market, non ho fretta. Di
Camilla c’è una foto un po’ sbiadita, io con mia moglie, lei con il suo
cane. Il nostro incontro, aveva lasciato gli studi, l’ho convinta a non
mollare, li ha ripresi, siamo diventati amici. Io ho lasciato mia
moglie, lei ha trovato marito. Inseguirsi, sfiorarla. Camilla passa a
fianco e mi sorpassa, veloce e invisibile, tutti i giorni di una vita.
E se adesso si separa, adesso che vado via, è solo un fatto virtuale,
se cancello non c’è più. Attendere … (Nuovo 1/3) CAMEL 07/03/2001 09:19 Visualizza. Voglio
stare sola - novità: forse c'è un altro, ma non so se avrò le forze.
Comunque sei l'unico che lo sa, abbi cura di te a pres Inseguirla,
sfiorarla. Salgo in macchina e giro la chiave. Il mio piede pesta a
fondo l’acceleratore. Esco dalla piazzola dell’autogrill, ancora un
cedimento. Uscita a Orte, voltare e tornare indietro, indietro,
indietro. Metto la freccia, ma è un momento. Non le darò il mio nuovo
recapito, per sentirla mi basta il telefonino: Menu - Servizi -
Messaggi brevi - Selez. - Leggi tutti i messaggi - Selez. - Attendere…
- (Ricevuto 1/3) - CAMEL - Visualizza - Opzione. Cancella - Sì - Cancellazione messaggio. Bologna è a trecento chilometri, se non perdo tempo in tre ore ce la faccio.
MT Nota
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racconto
| inviato da ioTocco il 24/1/2008 alle 22:15 | |
13 gennaio 2008
Esequie
Camicia
rossa e blu in panno, a quadrettoni; del tutto simile al plaid che
copre mio nonno fino al naso. Uno accanto all’altro, lui immobile, io
preoccupato. Mia madre, tutto un va e vieni dalla camera da letto al
salotto, una camicia da notte per lei, la borsa per l’ospedale già
pronta. Telefono che squilla. Faccio per alzarmi ma lei mi blocca, la consegna è di non perderlo di vista. Sì,
via Narbone, da Corso Finocchiaro Aprile la seconda a sinistra. Mio
padre fornisce dettagli minuziosi al centodiciotto. Ma quanto ci
mettono ad arrivare, ripete mia madre. Mio nonno è lì, sembra di cera,
gli poggio la mano sulla fronte, non so che fare. Vorrei andare via da
casa, andare in riva al mare, con un’aria meno cupa. Vorrei Sara, ma
non posso chiamarla, il telefono deve restare libero. Elvira, sono
qui. La voce sommessa di mio padre mi tranquillizza, sono arrivati, tra
poco sarà tutto finito. Un portantino e un’infermiera, alle estremità
opposte di una barella, non salutano neanche, mio nonno è un peso morto
portato via a braccia per le scale, poi dentro l’ambulanza, poi via a
sirene spiegate verso il Civico. Noi tre dietro, guida mio padre. Al
volante, mio padre non è una scheggia, non riesce a stare dietro
all’ambulanza, se la perde al primo incrocio. Tengo stretta in mano una
scheda telefonica, la mano mi suda. Devo chiamare Sara al più presto,
appena possibile. Ci attendono per l’accettazione. Una donna in
camice domanda a mia madre cos’è accaduto. Mi ha chiamato, stanotte,
che si sentiva poco bene, lui dorme nella camera accanto alla nostra.
Le tremano gli angoli della bocca mentre parla, mio padre interviene:
Si è alzato per andare in bagno ed è caduto. Non si è più mosso. Mio
padre interviene sempre su mia madre, per soccorrerla sembrerebbe. Mi
allontano per telefonare, dico, ma mia madre mi riprende. Dove vai?
domanda, l’hanno trasferito a rianimazione, da solo non ti fanno
entrare. Ho mal di testa, sarà stupido ma mi vergogno a chiedere
un’aspirina. Non credo che troverò mai qualcuno con un’aspirina qui.
Sara, devo sentirla.
Via Narbone sembra improvvisamente deserta
a guardarla dal balcone del salotto. Ma è un inganno, mio nonno non
scendeva a passeggiarvi già da un pezzo. Al posto suo, una processione
di signore in nero; dalle macchine, infilano tutte il portone
semichiuso del palazzo. Intrattengo gli ospiti, ogni tanto guardo la
bara aperta come fosse un mobile nuovo della stanza, poi sposto lo
sguardo sulla poltrona dove è seduta mia madre, a lutto, il volto
segnato. Mio padre è in trattativa con l’agenzia, deve decidere un
mucchio di cose, cosa scrivere sul necrologio, quanti bigliettini di
ringraziamento fare stampare. La veglia notturna è interminabile,
noi tre sul divano di fronte alla bara aperta, il naso di cera di mio
nonno che affaccia appena dal bordo di legno, il caffè nel bricco a
portata di mano, l’odore forte e persistente dei fiori che non
diventeranno mai opere di bene. Sì, c’è anche il mazzo di Sara, l’ho
messo insieme agli altri, ma forse più tardi lo sposto nella mia stanza. I
parenti più stretti hanno portato la consolazione, sacchi della spesa e
cibo precotto da mangiare per un mese e oltre. La casa ha riacquistato
il silenzio, ma più che quiete è un silenzio fatto di assenza. Vorrei
chiedere il permesso di andare un po’ a dormire, ma so che ci
resterebbero male, non mi muovo. Semmai più tardi, se anche mio padre
si alza, che so, per andare in bagno, se anche mia madre si muove un
po’, se qualcuno fa qualcosa insomma, ne approfitto e vado a telefonare
a Sara.
MT
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racconto
| inviato da ioTocco il 13/1/2008 alle 0:53 | |
11 gennaio 2008
Sull'Eurostar
“E’ il mio posto”. Carrozza 12 posto 26 finestrino. Controllo ancora
una volta il biglietto, per pignoleria. Sì, è proprio il mio posto. Il
ragazzetto (uno studente?) si alza deluso e con un cenno da condannato
saluta gli altri tre. Ne riceve cenni d’incoraggiamento che comprendo
al volo. “Dipende”, gioco d’anticipo. Dipende da cosa mi offri in cambio, carino. “Ho un posto in carrozza sei” avanza timido. “In carrozza sei non ci vado”. Lo
studente lascia il posto. E’ sconfitto, comprende, ma mi sento lo
stesso un cerbero. Prendo il treno fin da ragazzo, studente anch’io.
Viaggiavo in poltrona anche di notte, per risparmiare. Il riposo non
era un mio problema, il viaggio in treno era parte integrante della
vacanza. In treno si facevano incontri, o meglio: in uno scompartimento
da sei avevi cinque possibilità di incontrarne almeno una per cui
valesse la pena. Il ragazzetto trova posto alle spalle dei suoi
amici. L’avvio del treno indica che i giochi sono fatti, da Bologna a
Milano non ci saranno più fermate, e così mi sparo l’atto di bontà:
vado al posto suo e lui, tenero, di nuovo contento, torna alla sua
compagnia. Capisco, ci sono passato anch’io. Adesso sono in una fila
da due posti a sinistra e due a destra, accanto al solito uomo d’affari
con l’orecchio saldato al telefonino. Cerco di non guardarlo, comincio
a sfogliare Repubblica in modo da dettare le regole e marcare il
territorio: il mio tavolino resta aperto per tutto il viaggio, ti
piaccia o no. Lo chiudo solo se devi andare in bagno e, semmai ti
venisse in mente, non voglio parlare del tempo, della situazione di
Trenitalia, dell’Inter (ha la Gazzetta aperta davanti) né del Governo
Prodi. Voglio leggere. D’altra parte lui non sembra proprio il tipo da
due chiacchiere sul più e sul meno, andremo d’accordo. Comincio a
leggere: due soldati italiani rapiti in Afghanistan dai talebani o da
chissà chi. Sarà molto dura. Il corridoio del vagone mi divide da una
donna che, imparo, deve ispezionare diversi cantieri. Sarà un
ingegnere, mestiere di cui non esiste o non conosco un corrispettivo
femminile. La sua voce ha cadenza toscana in accento lombardo, la
classica emigrata per lavoro, ma mi domando se sia emigrata da Firenze
a Milano o viceversa. Porta delle scarpe da tennis bianche, vergini, o
è brava lei a non sporcarle frequentando cantieri. Ha un bel paio di
gambe, deve essere simpatica, peccato per il viso. Un uomo con accento
indefinibile, vicino a lei, chiede a telefono biglietti per non so
quale concerto. Mi viene di afferrare il telefono e chiamare anch’io
non so chi, invece mi rituffo su Repubblica. Imparo che tempo fa (ma
quanto tempo fa?) Israele avrebbe compiuto un raid in Siria per
distruggere una centrale nucleare. La Siria non avrebbe reagito e il
Mossad avrebbe così registrato un clamoroso successo. Il Risiko: sposto
dieci carriarmati e due aerei in Siria, tocca a te. Tra l’altro il
Risiko mi ha sempre annoiato, preferisco il Trivial. Termino
Repubblica, mancano circa quaranta minuti a Milano ed ho tutto il tempo
per cominciare il libro che tengo in borsa. Il viaggio per me è
lentezza, riposo, ma a quelli che ho intorno riesce a raddoppiare il
tempo lavoro. Pensa che, se mi sposto da Bologna a Milano in Eurostar,
ho un’ora e quaranta minuti di tempo per effettuare telefonate di
lavoro, terminare quella relazione al computer, navigare in rete, nel
frattempo leggo il Sole24ore e sorseggio un caffè al bar. Personalmente
vado a Milano per cure, e con la metro coltiverò anche il tempo libero:
ore 10 Milano centrale, 10e30 a Lambrate, alla mezza ho finito col
medico, pranzo, ore 14 ho il treno per Bologna. In mezzo mi sparo due
passi al Duomo, roba che se dovessi andare da Lambrate al Duomo e poi
alla centrale in autobus non mi basterebbe una mattina. E’ tecnologia,
questa! Alta velocità. A proposito: non me n’ero accorto, ci siamo
fermati. Siamo fermi in una piccola stazione, di quelle che dai
finestrini dell’Eurostar dovresti vedere come una mitragliata di pali,
uno o due treni fermi, e il blu dei cartelli di cui tenti invano di
inseguire il nome oscillando con la testa. Il cartello blu che
adesso ho davanti si legge da dio, siamo proprio fermi. Siamo a
Secugnago, paese di cui sconoscevo l’esistenza. Finalmente il capotreno
ci parla: attenzione! Causa investimento, la linea elettrica è
temporaneamente interrotta, vi aggiorneremo sulla situazione. L’ingegnere
in scarpe da tennis, bellegambe e peccato per il viso, chiude la
telefonata e mi domanda perché siamo fermi. Causa investimento, le
dico, cercando di scandire la parola e non aggiungere espressioni
facciali che possano ingigantire la notizia. Ma immagino già tutti noi
abbandonati a Secugnago (campagna) a litigarci l’acqua della Protezione
Civile, sequestrati dentro al vagone senza più aria condizionata, con
Bertolaso che parla di evento imprevedibile e quindi da lui non
previsto. L’ingegnera belle gambe peccato ecc, ha il tempo di
reazione più rapido: compone numeri su numeri e avverte i capocantiere
che non arriverà né adesso né dopo, in quanto, dice, il treno ha
investito qualcuno. L’uomo d’affari accanto a me è più sobrio, nelle
sue conversazioni non fa alcun cenno sul possibile ritardo che da qui a
poco ci investirà tutti. Il tizio che cercava i biglietti del concerto
guarda fuori cercando di farsi un’idea. Impugno timidamente il
telefonino e chiamo casa per avvertire che certamente ritarderò il mio
arrivo a Milano, dove peraltro non mi attende nessuno. Ammonisco mia
moglie che questo non precisato ritardo potrà creare conseguenze in
tutte le attività della mia giornata e quindi… salterà la passeggiata a
piazza Duomo, penso tra me. Chiusa la comunicazione mi accorgo che
l’ingegnera non c’è più, e realizzo che le porte sono state aperte per
liberare i fumatori. L’uomo d’affari mi guarda, mi dice che se hanno
aperto le porte allora la cosa è senz’altro grave. Lo osservo per la
prima volta: ha una lunga cicatrice sulla guancia destra da Scarface
che stona col suo aspetto manageriale. Annuisco: sarà grave, si sa
niente? Do per certo che la gente ne sappia sempre più di me, alle
volte un servizio sul telefonino, tipo goal in diretta, situazione
traffico su rotaie in tempo reale. Infatti Scarface sa, mi dice che si
tratta di un suicidio. Adesso ne so anch’io e scendo dal vagone con
passo sicuro; immagino di avere sulla testa una di quelle insegne con
intorno le lampadine colorate e la scritta: qui notizie fresche. Prendo
una cartina, la mia busta gialla di Golden Virginia e mi rullo una
paglia. Un tipo con l’insegna più grande della mia va dicendo che tra
poco arriveranno i pullman, perché tra rilievi della scientifica e
magistrati che vogliono capire com’è andata… Poi aggiunge: lo so,
perché ci ho lavorato! Che fa lo stesso effetto di quando c’è a terra
uno con un malore e nel capannello di persone spunta quello coi guanti
di lattice. Prova a chiedergli se sono guanti da medico, infermiere,
giardiniere o netturbino. Pippo la mia sigaretta e mi trovo davanti
l’ingegnera e il tizio dei biglietti. Stavolta sono io ad avere più
informazioni, me le venderò a caro prezzo. Così parlo di pullman,
rilievi e magistrati, anche se non ci ho lavorato; il tipo dei
biglietti mi chiede di chi si tratta, quanti sono, sarà un incidente, o
forse è solo un animale. L’ingegnera dice: spero di no, sono
animalista. E’ simpatica, non è vero che ha un viso brutto, forse il
naso soltanto. Le dico: “Magari è una mucca, di quelle che tanto tra
poco la macellavano lo stesso”. Invece no, un terzo ci conferma che
si tratta di un suicidio. L’uomo che aveva lavorato in ferrovia (o alla
scientifica, o in magistratura) gli chiede se il ritardo è
rimborsabile. Mi spiego meglio: gli chiede se Trenitalia ci
corrisponderà il bonus per il ritardo causato dal suicidio di un uomo.
Si apre il dibattito: tecnicamente, conveniamo, il ritardo non è loro
addebitabile, quindi no, niente bonus. Torno al mio posto, il
capotreno annuncia che tra poco ripartiremo con un’ora di ritardo, ma
non fa cenno a rimborsi. Siamo contenti, appena un’ora di ritardo è una
buona notizia trattandosi di un suicidio. Suicidio, penso tra me, è
una persona che stamattina presto si è alzata, si è vestita, forse ha
fatto colazione, ha preso la macchina, ha raggiunto il posto che aveva
pensato chissà da quando e si è adagiata sui binari in attesa, oppure
ha atteso in piedi ed ha fatto il grande salto. Suicidio è un
macchinista che penserà tutta la vita di avere involontariamente ucciso
un uomo. Forse siamo davvero in troppi a questo mondo, così che ci è
impossibile prenderci cura, o anche solo commuoverci, dispiacerci,
fermarci un’ora come ha dovuto fare il nostro treno. Il treno è
ripartito, tra mezzora sarà a Milano. Ironia della sorte, il libro che
volevo cominciare è Non buttiamoci giù, di Nick Hornby. Parla di
quattro sconosciuti che si incontrano casualmente sulla terrazza di un
palazzo il giorno che ognuno di loro ha deciso di farla finita. Prima
del romanzo c’è una citazione di Elizabeth Mc Cracken: “la cura
dell’infelicità è la felicità, me ne infischio di quello che dicono
tutti”. Me la scrivo sull’agenda, tra le cose da fare: 1) chiamare
l’idraulico; 2) essere felici. Poi comincio a leggere il libro. Milano,
dottore, panino, piazza Duomo, metro, stazione, di nuovo Bologna.
Scendere prego. Casa. Chiamare l’idraulico. Essere felici.
MT
Nota
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racconto
| inviato da ioTocco il 11/1/2008 alle 11:43 | |
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